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Dai laboratori del CAAD alla prima pagina di “Bone”
Farah Daou, dottoranda del PhD Food Health and Longevity, è una delle autrici dell'articolo “Unraveling the transcriptome profile of pulsed electromagnetic field stimulation in bone regeneration using a bioreactor-based investigation platform”, che si è guadagnato la prima pagina della prestigiosa rivista scientifica "Bone".
Di Simone Sarasso
Data di pubblicazione
credits © Archivio UPO
Sul numero di maggio 2024 della prestigiosa rivista scientifica Bone è stato pubblicato “Unraveling the transcriptome profile of pulsed electromagnetic field stimulation in bone regeneration using a bioreactor-based investigation platform”. Tra le autrici e gli autori dell’articolo, in compagnia di Lia Rimondini e Andrea Cochis, professoressa ordinaria e professore associato di Scienze tecniche mediche applicate presso l’Università del Piemonte Orientale, Farah Daou, dottoranda del PhD Food Health and Longevity. Una parte peculiare del lavoro della dottoressa Daou – la fotografia in Biorender del modello osseo al centro del progetto – ha guadagnato gli onori della front cover della pubblicazione leader della fisiopatologia dei tessuti scheletrici. Abbiamo incontrato la dottoressa Daou al CAAD, il Centro per le malattie autoimmuni e allergiche di Novara, e ci siamo fatti raccontare i retroscena di questo grande successo.
SS: Dott.ssa Farah Daou, grazie per avermi ricevuto. Siamo qui per un'occasione unica, dal momento che il suo lavoro ha meritato la copertina di Bone, l'importante rivista scientifica. La prima domanda, dopo gli obbligatori ringraziamenti per averci concesso il suo tempo, è: “Chi è Farah Daou? Come e perché è qui a Novara? Qual è il suo lavoro?"
FD: Mi chiamo Farah Daou, vengo dal Libano ed è lì che mi sono formata. Ho una laurea in Scienze cliniche di laboratorio e un master in Tossicologia bioanalitica. Durante il master, ho scoperto che la ricerca è probabilmente il modo migliore per imparare, perché ha un approccio non convenzionale al sapere. Mi sono posta in fretta un nuovo obiettivo: voglio fare un dottorato di ricerca.
La vita ti sorprende continuamente e sono finita qui a Novara grazie alle professoresse Lia Rimondini e Annalisa Chiocchetti; non è così facile, per una persona proveniente da un paese in via di sviluppo, avere una chance. Mi hanno dato la possibilità di venire qui e ho iniziato come borsista, quindi nemmeno come dottoranda. Durante i primi mesi, la professoressa Rimondini mi ha chiesto se volevo candidarmi per la posizione di dottorato aperta nel suo laboratorio, ed è così che ora sto portando avanti il mio dottorato di ricerca in Ingegneria dei tessuti ossei.
SS: Come si è sentita a mettere sottosopra il suo mondo e tutta la sua vita, cambiando paese? Come appaiono ai suoi occhi una città come Novara e un Paese come l'Italia? Era mai stata qui prima o è la prima volta?
FD: Da quando sono arrivata a Novara – provengo purtroppo da un Paese in conflitto –, la prima cosa che ho notato è che qui la gente vive in pace. Ho semplicemente apprezzato molto questa pace ed è per questo che ho pensato... voglio davvero vivere qui, sto bene in questo posto. Quando ero in Libano, sentivo che l’ambiente era un po’ stressante per me, forse non ero abbastanza forte per gestire tutto ciò che accadeva intorno. Quindi, trasferirmi qui mi ha aiutato molto a livello personale e professionale: ho fatto ricerca quando ero in Libano durante gli studi del master, ma non aveva nulla a che fare con la ricerca che svolgo oggi.
Inoltre, sono davvero grata alla professoressa Lia Rimondini perché lavoriamo in un environment in cui lei ci spinge ad andare a convegni, a frequentare le scuole estive, a partecipare a tante attività… per esempio, l'estate scorsa ho frequentato una summer school organizzata dall'Università Cattolica del Sacro Cuore, legata alla produzione del vino. Ho fatto domanda, sono stata accettata e la professoressa non ha detto di no; questo clima anche a livello professionale mi ha aiutato molto.
Lo dico dopo tre anni che sono in Italia: all'inizio, le cose non sono state molto facili per me; venire in un nuovo paese, dover imparare una nuova lingua e cambiare indirizzo di studi. Sono arrivata in Italia conoscendo le basi dell’italiano perché l’ho studiato un po' da sola.
SS: Penso che sia una specie di trauma: è comprensibile… una lingua diversa… e anche l'inglese non è così popolare qui da noi, al di fuori della comunità scientifica.
FD: Ciò che mi ha aiutato a migliorare il mio italiano è stato il volontariato con la Comunità di Sant'Egidio. Sono arrivata a maggio 2021, e a giugno ho iniziato a imparare la lingua con i volontari della comunità. A fine giugno, ho cominciato attivamente a fare volontariato servendo cibo agli indigenti, stando vicino a persone che non conoscono l'inglese, e questo ha fatto sì che la comunicazione potesse avvenire solo in italiano. Questo non solo ha migliorato il mio italiano, mi ha anche aiutato a integrarmi nella società e, forse, sì, il fatto che le persone al di fuori della comunità scientifica non conoscano molto l'inglese è anche il motivo per cui il mio italiano si è perfezionato.
SS: Per favore, mi racconti il suo percorso fino a questo punto: come e quando è iniziato il lavoro che l’ha portata alla copertina di Bone?
FD: Anche questo è qualcosa di cui gli appartenenti alla comunità scientifica sono a conoscenza, ma spero che anche le persone che non sono scienziati leggano questa intervista. Abbiamo pubblicato questo articolo nel 2024, ma, in realtà, il lavoro è iniziato quasi due anni fa. Quando sono arrivata, ho scritto una proposta di ricerca, come tutti gli studenti di dottorato, poi abbiamo ricevuto un nuovo progetto, e questo nuovo progetto era legato alla creazione di una piattaforma di indagine in vitro che imita il tessuto osseo. Disporre di strumenti migliori per eseguire esperimenti in laboratorio può aiutarci a ridurre il numero di animali utilizzati nella ricerca. Di solito eseguiamo test in laboratorio (in vitro), poi (in vivo) con animali e infine passiamo agli esseri umani. Questo passaggio dall’in vitro all’in vivo non è molto efficiente (perché gli esperimenti in vitro non replicano la complessità degli organismi), il che rende anche la transizione dagli studi in vivo agli studi clinici poco efficiente. Questo progetto mirava a utilizzare modelli 3D anziché 2D, il che significa che stiamo lavorando in un'architettura simile a quella del corpo e dotata di stimoli meccanici: noi esseri umani non viviamo in una condizione statica, siamo sempre in movimento. Tutto, in noi, dal sangue al liquido interstiziale, è in moto costante.
Abbiamo perciò provato a creare questo sistema e, durante questi due anni, prima di poter eseguire gli esperimenti, è stato un viaggio di ottimizzazione. Come possiamo mettere le cellule staminali negli scaffold (sostituti ossei, ndr)? Come possiamo nutrire queste cellule staminali? Che tipo di nutrienti vogliamo fornire alle cellule? È meglio nutrirli con un mezzo di differenziazione – che spinge le cellule staminali a trasformarsi in cellule ossee – o con un mezzo normale? Dopo aver fatto tutto questo – un processo di trial and error – siamo passati all'esperimento finale che ci ha permesso di scavare più a fondo facendo studi trascrittomici, ecc. e abbiamo pubblicato l'articolo.
SS: Lo scopo dell’intervista è quello di comunicare questo grande lavoro e il suo senso profondo a persone che non si occupano di scienza tutti i giorni. Proverò a sintetizzare, e la prego di correggermi se ho frainteso qualche passaggio: in sostanza, state trovando il modo di sperimentare sempre meno sugli animali, di creare un osso artificiale che funzioni come un osso vero e proprio. Ovviamente, sto semplificando...
Come si è sentita quando ha capito che il processo stava funzionando? Le va di descriverci le fasi tecniche attraverso le quali è arrivata alla consapevolezza che il prodotto artificiale a cui stavate lavorando funzionava e poteva realmente aiutare le persone?
FD: Sarà una risposta lunga, ma vorrei davvero rendere le cose più chiare a tutti. Al momento, gli studi principali vengono condotti su cellule in colture 2D e testano, tanto per fare un esempio, il cancro. Si testa il farmaco 1 rispetto al farmaco 2 e si controlla in questo ambiente 2D quale farmaco funziona meglio. Poi, sulla base di questi esperimenti, si passa agli animali, le cose non funzionano – o magari funzionano – ma anche gli animali sono molto diversi dagli umani, ecco perché è un lungo viaggio.
SS: Può spiegarci quali animali sono coinvolti nel suo lavoro?
FD: Anche questo è un altro argomento importante. Non ho mai condotto studi sugli animali, ma la mia conoscenza si basa su ciò che ho letto negli articoli. Quando si tratta di rigenerazione delle ossa e della cartilagine, non possiamo lavorare con topi o ratti.
Ecco perché, di solito, sono necessari animali più grandi: capre, pecore, ecc. Qui non abbiamo ancora le strutture per fare lavorare con animali di grandi dimensioni, quindi, principalmente, gli studi vengono condotti su animali più piccoli, come i topi. Nel nostro studio miravamo a produrre questa piattaforma in vitro che imita il tessuto osseo per studiare un trattamento per la rigenerazione ossea, e questo trattamento è molto interessante per i medici perché non è invasivo: le persone non prenderanno una pillola, non saranno sottoposte a iniezioni. Useranno semplicemente un apparecchio applicabile all’esterno del corpo, che produce campi elettromagnetici.
I medici hanno scoperto che, se applichiamo questi campi elettromagnetici dove l'osso è danneggiato, aiutano l'osso medesimo a guarire. Ma non si sa ancora come, cosa sta succedendo, quali siano i signaling pathway (vie di segnalazione, ndr), quali molecole vengano prodotte dalle cellule; tutto ciò non è ancora noto. Inoltre, riguardo all'utilizzo di questo apparecchio, non esistono linee guida cliniche, il che significa che un ortopedico o un fisioterapista può decidere autonomamente il trattamento in base alla propria esperienza... se sono, poniamo, una donna di una data età (prima o dopo la menopausa), avendo questa patologia e una frattura, quanto dovrei espormi a questi campi elettromagnetici? Due ore al giorno per due settimane? Quattro ore al giorno per una settimana? Non esistono linee guida cliniche.
Per conoscere i signaling pathway e avere linee guida cliniche, sono necessari più esperimenti.
Il nostro lavoro è complesso: l’immagine sulla copertina di Bone è in realtà l'integrazione di molte esperienze, l'incontro di tanti collaboratori, perché qui all'Università del Piemonte Orientale, all’interno del nostro gruppo, lavoriamo con valutazioni biologiche, non siamo ingegneri.
Sono dunque gli ingegneri del Politecnico di Torino che hanno progettato il bioreattore che fornisce stimoli meccanici simili a quelli del tessuto osseo. Abbiamo anche il Consorzio di ricerca Hypatia a Roma, che è stato in grado di stampare un modello 3D che assomiglia esattamente all’osso trabecolare del nostro corpo.
E possiamo anche contare sulla collaborazione di un'azienda italiana, IGEA, che produce questo apparato compatibile con il nostro sistema, ergo possiamo usarlo e testarlo in laboratorio. Dietro quell’immagine di copertina, c’è davvero molto di più.
SS: Se parliamo di materiale, di cosa è fatto questo osso artificiale?
FD: Sono molti i materiali attualmente in uso, come il titanio, per esempio. Sappiamo tutti del titanio utilizzato per ripristinare l'osso, ma esistono materiali innovativi. Finora questi materiali non sono arrivati alle cliniche. Cerchiamo di utilizzare un materiale approvato dalla FDA (Food and Drug Administration, l'ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ndr) per i dispositivi medici. Ecco perché i nostri scaffold sono costituiti da acido polilattico (PLA). È un polimero. Il vantaggio di questo polimero è che è resistente quanto l'osso.
L'altro vantaggio dell'acido polilattico è che si degrada, quindi viene rimosso dal corpo con la stessa rapidità con cui il nostro organismo produce un osso nuovo. È questo lo scopo: quando si desidera inserire qualcosa che aiuti la rigenerazione ossea, si vuole anche la possibilità di rimuovere questo “qualcosa”, in modo da sostituirlo con un vero osso.
Un polimero, parlando in linguaggio divulgativo, è una cosa molto grande fatta di piccole cose che si ripetono, ed è così che si presenta. Può essere stampato in 3D, è molto leggero, resistente, può essere indossato.
SS: Quando ha ricevuto la notizia che Bone aveva dedicato la copertina al suo lavoro?
FD: Ho terminato la prima parte del mio lavoro di laboratorio al mattino, e il professor Andrea Cochis, che è l’altro responsabile del gruppo, mi ha detto: "Hai controllato Bone?"
Ho pensato: "Cosa intende?" e l'ho aperto: "Oh mio Dio! Questa è la figura che ho creato su BioRender!". Il professor Cochis ne era venuto a conoscenza grazie a un altro professore che per caso stava controllando la rivista e ha visto la nostra figura in prima pagina. È stato un grande traguardo per tutti noi, perché dà soddisfazione non solo al gruppo di ricerca, ma a tutti i nostri collaboratori.
I nostri partner erano più contenti di noi. I finanziamenti sono molto importanti, perché per fare una ricerca significativa servono anche parecchi fondi. Noi e i nostri partner abbiamo investito in questo progetto, ma il tipo di ritorno che viene dalla pubblicazione penso che sia davvero importante. Quindi è stata una sorpresa, soprattutto perché la ricerca sta diventando molto competitiva. La scienza si è unita a tutti gli altri campi, sappiamo che stiamo facendo un buon lavoro, ma siamo altresì a conoscenza del fatto che ci sono istituzioni più grandi che stanno operando a un livello più alto, perché hanno più strutture, più risorse.
Che il nostro lavoro si distingua è qualcosa di molto apprezzato, soprattutto per UPO, perché è un'università giovane, e per noi è magnifico poter mostrare il nostro lavoro e illustrare concretamente i progressi che stiamo facendo in un periodo di tempo relativamente breve. Penso che anche questo sia opportuno menzionarlo, perché l'università ci sostiene molto. Sapete, qui al CAAD, il Centro per le malattie autoimmuni e allergiche dell’Università del Piemonte Orientale, dove ci troviamo ora e dove lavoro, abbiamo un microscopio a due fotoni, che è uno dei microscopi più sofisticati, una tecnologia all'avanguardia. Possiamo fare tutti gli studi di -omica, (trascrittomica, proteomica, metabolomica, ecc.) e l'università cerca di sostenerci il più possibile.
Voglio ringraziare nuovamente la professoressa Lia Rimondini, insieme alla professoressa Annalisa Chiocchetti e al professor Andrea Cochis, che sono molto attivi quando si tratta di candidarsi a progetti europei e di portare finanziamenti all'università. Oggi il mio gruppo, il Laboratorio Innovazione, non ha problemi quando, per esempio, deve acquistare i reagenti, ma non era così quando la professoressa Rimondini ha avviato il suo laboratorio, e lo stesso vale per la professoressa Chiocchetti.
Al momento il nostro laboratorio ha quattro progetti europei. Due sono targati “Marie Curie”, ma è lo sforzo di Rimondini e Cochis, che vogliono spingere il laboratorio, a promuovere l’innovazione, e va riconosciuto anche il meritò all'università nella sua interezza, perché beneficia dei finanziamenti con cui acquistare nuovi strumenti. Per fare un esempio, di recente abbiamo acquisito il microscopio elettronico a scansione (SEM), che ci aiuta davvero tanto nel nostro lavoro.
Abbiamo anche un nanoindentatore: tutte queste strumentazioni condivise arricchiscono la nostra comunità scientifica. Il fatto che in UPO non ci sia competizione, ma collaborazione tra laboratori e professori, aiuta davvero moltissimo: tutti sono disponibili a dare una mano, questo è un ambiente davvero straordinario per la scienza in generale.
SS: Qual è il rapporto tra scienza e comunicazione nel suo lavoro?
FD: A proposito della scrittura, voglio dirle una cosa; per me scrivere è molto importante. Per me è come una terapia, sa? Incoraggio molto gli studenti che sentono di poter scrivere, a usare una piattaforma gratuita, Medium. Avevo un blog su Medium forse tre anni fa, e ora ho deciso di ricominciare; l'idea con cui ho iniziato – ho deciso di pubblicare un post al mese – è usare un'immagine che scattata in laboratorio, usando il microscopio elettronico a scansione, il microscopio a fluorescenza delle mie cellule, con le impalcature, con qualunque cosa, e questa immagine mi ispirerà a scrivere qualcosa.
È un tentativo di mostrare alle persone la bellezza della scienza, per vedere le immagini straordinarie che scattiamo, perché per noi lo facciamo da qualche anno ormai, quindi non è impressionante vedere una cella attaccata a un'impalcatura, ma per altri è sorprendente. Il mio primo post sul blog era un'immagine di una parte della mia impalcatura per l'acido polilattico, incorporata con tantissime cellule, una sopra l'altra, e questa immagine mi ha ispirato a scrivere del percorso di dottorato, perché la gente pensa tu venga a lavorare qui, faccia semplicemente clic su alcuni pulsanti, e... boom, hai trovato una cura, scoperto qualcosa. Non è così.
È un viaggio molto lungo e onestamente credo che solo le persone abbastanza forti possano effettivamente continuare. Ci sono tante sfide e tante cose che occorre gestire, perché inizi lavorando su un progetto che può essere nuovo per te, proprio come nel mio caso, ma c'è tutto il lavoro in background, dall'ordinare i reagenti, per esempio – non siamo una grande università in cui un manager di laboratorio si occupa degli ordini per noi – quindi occorre imparare come utilizzare il sistema di ordinazione dell'UPO. Pensare a partecipare a convegni, a migliorare le proprie competenze, seguire gli studenti del master, insegnare loro quello che si è imparato, aiutarli a correggere le loro tesi, ecco perché, alla fine del percorso, ci si sente letteralmente come questa impalcatura, come quest’osso sintetico: un impegno multisfaccettato, ma bellissimo, proprio come la foto che ho pubblicato nel post del blog.
SS: Possiamo dire che, con il suo lavoro, i suoi sforzi e il suo commitment, sta costruendo l'osso perfetto che può sostenere la fatica del viaggio e permetterli di camminare fino al traguardo?
FD: Sì, mi piace questa descrizione, è assolutamente veritiera. Ed è così che vorrei raccontare questa esperienza, perché penso che sia la metafora perfetta per il viaggio, il lavoro, ma anche per la mia vita personale.
Il link all’articolo, consultabile sul sito ScienceDirect: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S8756328224000541?via%3Dihub
Il link all’articolo sul blog di Farah: https://medium.com/@farahdaou/a-story-through-a-picture-capturing-the-phd-journey-e28feb91a218
In allegato il testo dell'intervista originale, in inglese.
Allegati
- (09.04.24)_Daou_Interview_Eng.pdf
- Documento PDF - 176.82 KB
Ultima modifica 6 Maggio 2024
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