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"Ne usciremo, perché noi siamo New York". Il PhD alla Columbia University e l'impegno nell'epicentro della pandemia

Edoardo Gelardi è dottorando al DSF; da due mesi è a New York per completare la sua formazione che lo vede coinvolto anche nella creazione di kit diagnostici per COVID-19

Di Leonardo D'Amico

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Edoardo Gelardi
Edoardo Gelardi

Edoardo Gelardi sta completando il terzo anno del dottorato di ricerca presso il laboratorio di Biochimica e di Biologia Strutturale, diretto dal professor Menico Rizzi al Dipartimento di Scienze del farmaco, con la supervisione della dottoressa Silvia Garavaglia. Da circa due mesi si trova negli Stati Uniti, presso il Columbia University Irving Medical Center di New York, dove sta completando il suo tirocinio presso il Department of Physiology and Cellullar Biophysics nel laboratorio del professor Filippo Mancia.

A seguito del diffondersi della pandemia di COVID-19 anche i ricercatori del Mancia Lab hanno dovuto riallineare i percorsi di ricerca per fare fronte all’emergenza e alla creazione di kit diagnostici. Abbiamo contattato il dottor Gelardi per avere un punto di vista diverso su questa situazione.

 

Dottor Gelardi, partiamo dalla fine: il coronavirus sta decisamente dilagando negli Stati Uniti e New York è la città che più di tutte, nel mondo, sta pagando il prezzo di essersi mossa in ritardo. Lei come sta e che idea si è fatto della gestione dell'emergenza nella Grande Mela?

Facendo i debiti scongiuri sono fortunato e sto bene fisicamente, veniamo regolarmente controllati e si cerca di fare più prevenzione possibile, sotto qualunque aspetto. Anche dal punto di vista psicologico il laboratorio offre un bellissimo ambiente, multiculturale, pieno di energia, un luogo dove tutti mi hanno accolto come una grande famiglia. Sfortunatamente due ricercatori del laboratorio sono risultati positivi al virus a metà marzo, nonostante le precauzioni che entrambi adottavano. Dopo due settimane sono guariti lasciandosi alle spalle pochi sintomi e ora hanno ripreso regolarmente l’attività.

Non ho la presunzione di giudicare l’operato delle autorità americane, né ho tantomeno la preparazione per poterlo fare: posso però dire che spesso le notizie viaggiano più veloci della notizia stessa… Cina, Corea del Sud, Italia e altri paesi stavano vivendo un’emergenza sanitaria senza precedenti e penso si potesse sicuramente fare più prevenzione e, in generale, prepararsi meglio all’arrivo del virus.

 

Alcune stime molto recenti del governatore Cuomo (fonte NYT) ipotizzano che il 21% degli abitanti di New York abbia sviluppato anticorpi riconducibili a un contagio da SARS-CoV-2. Sarebbero quasi 2 milioni di persone contagiate, nella sola città di New York. Come stanno reagendo i newyorkesi e che effetto ha il social distancing in una città crocevia di culture e che fa della socialità il proprio ossigeno?

Rispetto alla situazione italiana posso dire che qui la quarantena è vissuta in maniera molto diversa; per le strade si vedono sempre persone, non necessariamente vicino a negozi di alimentari o farmacie. Qui non c’è una vera e propria regola che non permetta alle persone di circolare, cosa invece presente in Italia. I parchi pubblici sono presi d’assalto nel weekend, si cerca sempre di mantenere il social distancing e di munirsi di ogni dispositivo di prevenzione, tuttavia viene lasciata più libertà all’individuo. Credo che il governatore Cuomo stia dimostrando una forte leadership in un momento sicuramente unico, probabilmente il più triste dopo l’11 settembre per la città di New York. Gli piace ricordare spesso nei suoi discorsi che i newyorkesi sono persone “tough” (toste, ndr) e affronteranno anche questa emergenza come sta facendo tutto il mondo, con forza e coesione. C’è anche un video che spiega bene quest’attitudine della città in cui una delle frasi chiave è"We're gonna get through it, 'cause we are New York."

 

Un periodo di ricerca negli States lo sognano in molti, tra i suoi colleghi studenti. Come è riuscito ad arrivare a questa grande opportunità umana e professionale?

Le risposte sono molteplici. In primis devo ringraziare il professor Menico Rizzi e la dottoressa Silvia Garavaglia, così come tutti gli altri componenti del mio laboratorio a Novara (Franca Rossi, Davide Ferraris, Riccardo Miggiano, Castrese Morrone ed Eugenio Ferrario), che mi hanno insegnato molto e che mi hanno permesso di acquisire competenze utili, oltre che conoscenze teoriche, richieste in un laboratorio di alto livello come quello in cui lavoro ora. Chiunque segua un percorso di dottorato è fortemente spinto a effettuare un periodo all’estero, quindi perché non provarci in uno dei paesi con alcune delle migliori università al mondo come la Columbia University? Ho scelto questo particolare laboratorio perché volevo espandere le mie conoscenze allo studio di proteine di membrana, campo di ricerca di frontiera nella ricerca biochimica e della biologia strutturale; questo ambito è indagato da pochi gruppi di ricerca sia per il costo elevato dei materiali da utilizzare sia per la necessità di strumentazioni numerose e la grande difficoltà sperimentale. Il PI, professor Filippo Mancia, è un biologo strutturale italiano molto noto e il gruppo di ricerca del DSF da cui provengo lo conosce molto bene. Il Mancia Lab, inoltre, ha ospitato una delegazione dei migliori studenti del corso di laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche UPO nell’estate del 2018, quindi i rapporti tra la nostra Università, in particolare del gruppo di Biochimica, e la Columbia University sono forti e aperti allo scambio culturale e umano. Il nostro gruppo di ricerca al Dipartimento di Scienze del farmaco ha consolidate collaborazioni scientifiche anche con un’altra Università di New York, e alcuni miei colleghi vi hanno passato periodi di ricerca e studio che mi hanno ulteriormente spinto a considerare New York come il posto giusto per fare un’esperienza di ricerca di altissimo livello in una città fortemente multiculturale.

 

La sua esperienza a New York l'aveva certamente immaginata diversa. Di che cosa si sta occupando oggi nel laboratorio del professor Filippo Mancia, e in che modo il SARS-CoV-2 è entrato nei vostri orizzonti di ricerca?

Come detto in questo laboratorio si studiano in particolare proteine di membrana. In seguito allo stato di emergenza, il professor Mancia è stato contattato da diversi gruppi di ricerca del Columbia Presbyterian Hospital come esperto di biochimica. La comunità scientifica ospedaliera necessitava, infatti, di una produzione costante di proteine di SARS-CoV-2, in particolare due di esse: la prima denominata SPIKE protein, che è appunto una proteina di membrana, e poi la NUCLEOCAPSID protein, una macromolecola solubile. Così un piccolo team formato da me, dalla dottoressa Francesca Vallese, post-doc nel gruppo del professor Oliver Clarke, e la studentessa di dottorato Brianna Costabile, si è messo immediatamente al lavoro per studiare e sviluppare un protocollo di espressione e purificazione di entrambe le proteine. La prima finalità, a seguito dell’ottimizzazione dei vari protocolli, è stato lo sviluppo di un kit diagnostico attraverso il saggio immunologico ELISA. Questa procedura sfrutta delle piastre su cui vengono fatte aderire le proteine purificate nel nostro laboratorio e a cui vengono aggiunti campioni sierologici di pazienti per trovare anticorpi formatisi a seguito dell’esposizione al virus. Attraverso l’uso di questo saggio diagnostico quindi, si può aiutare il personale medico a capire a che stadio della malattia si trovi il paziente e a isolare le persone asintomatiche. Ovviamente il test ha richiesto diverse validazioni sia per quanto riguarda la sensibilità sia per il setting finale dell’esperimento, dovendo garantire la più alta percentuale di attendibilità del risultato. In questi giorni tutto il personale ospedaliero con sintomi si sta sottoponendo ai test diagnostici; successivamente il test verrà eseguito anche su pazienti sintomatici. Inoltre, risolta la necessità più impellente di sviluppare un kit diagnostico efficiente, stiamo collaborando con diversi gruppi sia per la ricerca di anticorpi sia per lo sviluppo di molecole che possano inibire il legame tra il virus e il recettore ACE2 umano.

 

La ricerca in Italia soffre l'annoso problema del sottofinanziamento generale del sistema universitario. La Columbia University, in questo senso, sembrerebbe rappresentare una realtà decisamente diversa, ma quali sono le differenze più evidenti nella gestione della vita quotidiana di un laboratorio biochimico se compariamo Italia e USA?

Il sottofinanziamento purtroppo è un problema che riguarda diversi settori in Italia, a partire dalla ricerca. In generale credo che la gestione economica di tutta la sfera delle professioni e delle infrastrutture sanitarie sia quantomeno rivedibile.

Qui la più grande differenza, oltre alla grande disponibilità economica, è costituita da una burocrazia più snella che permette a qualunque gruppo di svolgere il lavoro al meglio. Tuttavia non bisogna dimenticarsi del fatto che la Columbia University è una realtà felice (fa parte della cosiddetta “Ivy League”, insieme ad altri sette famosissimi atenei): i diversi gruppi vincono molti grant federali, sia per merito dell’innovazione delle loro idee sia per il prestigio di questa istituzione e alla fine ogni gruppo ha un’incredibile disponibilità economica. È giusto ricordare, però, che realtà meno celebri non se la passano altrettanto bene, neanche negli Stati Uniti. Nonostante questo divario economico incalcolabile la nostra preparazione, e in generale il background dello studente medio italiano, permette di stare al passo con qualunque ricercatore nel mondo; non abbiamo assolutamente nulla da invidiare, anzi… E posso anche dire che la Columbia University, così come molte altre università americane e internazionali, è piena di ricercatori e professori italiani o di formazione italiana. Qualcosa vorrà pur dire, no?

Un altro fattore che trovo invidiabile di un laboratorio americano è l’estrema eterogeneità dei vari ricercatori, se consideriamo nazionalità e formazione, cosa che permette un arricchimento generale sia da un punto di vista scientifico sia culturale. In questo senso abbiamo ancora molto da imparare e sarebbe importante prenderne esempio.

 

Poi lei dagli States ritorna, vero?

Sì, a luglio tornerò; ho ancora tanto lavoro da fare in Italia sul progetto e sulla stesura della mia tesi, uno studio che continua ad appassionarmi. Al termine del mio dottorato si vedrà, ci sono tante possibilità, e questa situazione di emergenza ha mostrato ancor di più che la buona ricerca è essenziale, anche se spesso viene un po’ dimenticata.

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Covid-19

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